Sei ignari personaggi, ognuno con un disturbo neurodivergente o compulsivo da stress, si ritrovano nello studio di un luminare che dovrebbe risolvere tutti i loro problemi con la società che li vuole normali e sani. Questo è l’incipit di Terapia di gruppo.
Che significa, poi, sani? Ognuno di noi nasconde manie, paure e tic che fanno soffrire e rendono dura la giornata. Nella trama, i personaggi sono ovviamente caricature delle loro patologie. Costretti in un unico ambiente, che sarà poi l’unico set di tutto il film, cercano di sopportarsi, attendendo invano il Godot luminare che mai arriverà.
Ci sono momenti ridicoli e momenti emotivi, dove alla fine tutti si aprono agli altri, anche chi inizialmente non ammetteva l’essere “malato”, perché ciò di cui tutti abbiamo realmente bisogno è il non sentirsi soli.
Pregi e difetti del gruppo
Forse è questo l’unico tratto che realmente ho percepito reale nell’emotività dei personaggi. Perché tutti nei loro disturbi nascondono il bisogno di esserci, di essere ascoltati e capiti senza giudizi e senza soluzioni. Vogliono solo essere accettati cosi come sono. Cosa che però poi nel finale non accade, secondo me. Infatti, ognuno modifica se stesso negli atteggiamenti per piacere a chi prima lo aveva abbandonato. Tutti tranne il personaggio principale che – essendo neurodivergente con la Tourette – non può cambiare, ma capisce che è inutile nascondersi e chi ti ama lo fa senza remore.
Insomma, tanta idea ma poca resa. Risate banali forzate e tematiche personali un po’ semplificate. Nell’originale Toc Toc – opera teatrale francese – erano solo i tic ad essere i protagonisti senza spiegazioni del perché siano presenti nei personaggi. Invece; in questa versione, cosi come anche definito dagli sceneggiatori e dal regista durante la conferenza stampa, si è aggiunto il dramma personale come causa o effetto dei tic, per dare valore e spiegazione alle sindromi stesse.
Il cast conosciutissimo e comunque affiatato rende abbastanza godibile il film, scelti sicuramente perché i ruoli calzano a pennello almeno sui grandi nomi, come Claudio Bisio, Margherita Buy, Claudio Santamaria, Lucia Mascino e Ludovica Francesconi. I due giovani rendono abbastanza i personaggi anche se il giovane Leo Gassman l’ho trovato troppo caricaturale e poco reale. C’è da dire che la patologia a lui “assegnata” è troppo scontata e superficiale (misto tra stress da lavoro e dipendenza da cellulare), come a voler aggiungere un personaggio tipico dei meme su come vedono i giovani le generazioni boomer.
Un film da vedere per passare un pomeriggio, ma senza pretendere troppo dalla trama o aspettarsi grandi risate. Con un cast divertente seppur sempre lo stesso delle commedie italiane.
I soliti difetti del cinema italiano
Un déjà vu facile da cogliere rectius dei principali problemi del cinema italiano.
Volendo soffermarci sulle note dolenti del film, spiace in primis dover evidenziare che tale lungometraggio soffre di un problema atavico delle commedie italiane: ripetere spesso storie simili con personaggi non così distanti gli uni dagli altri. Il senso di déjà vu in questo caso è forte ed è accentuato proprio dalla scelta di includere nel cast Claudio Bisio e Margherita Buy.
Tali attori, certamente chiamati dalla produzione per assicurare un eco al film e rassicurare gli spettatori già dalla loro presenza nella locandina e nel trailer, si ritrovano a svolgere ruoli che per loro non sono certo una novità. Bisio con questo film è per la terza volta in appena 16 anni uno psicanalista (solo De Niro che fa il mafioso ha fatto meglio!): la prima volta fu in quel gioiello di “Si può fare” del 2008, oggi purtroppo di difficile visione on-demand, mentre la seconda è in “Confusi e felici” del 2014.
Non parliamo poi di Margherita Buy, la quale troppo spesso è ingaggiata per interpretare una persona con disturbi mentali più o meno seri, come ad esempio nel “Ma che colpa abbiamo noi” di Carlo Verdone del 2003, dove un gruppo di persone è costretto a fare terapia di gruppo come avviene nel film che qui stiamo analizzando.
Ecco dunque che l’utilizzo sempre degli stessi attori, con trame tra loro simili o non originali (questa ad esempio è tratta da una pièce francese e già oggetto di un lungometraggio in Spagna), lascia lo spettatore, cinematograficamente un pelino più colto degli altri, sconfortato perché si trova di fronte un qualcosa che più o meno ha già visto. Magari non saranno gli stessi i disturbi della mente, probabilmente quello di adesso è un film più aggiornato ai tempi che corrono, ma non c’è innovazione, non si osa, non si rischia.
Da fast fashion a fast movie
Si confeziona un prodotto pronto all’uso per un pubblico semi lobotomizzato che vuole vedere una commediola e farsi due risate per passare in leggerezza un’oretta e mezzo pensando il meno possibile.
E qui si collega l’altro aspetto che lascia molti dubbi (e personalmente anche l’amaro in bocca), ovvero l’idea di trattare tematiche complesse e delicate, come appunto i disturbi del comportamento, con faciloneria, edulcorando le situazioni e dunque banalizzandole. Ci chiediamo se gli spettatori veramente rifletteranno, vedendo il film, sulle difficoltà che incontrano persone all’apparenza sane e che invece convivono con problematiche nel comportamento che isolano e che imbarazzano.
Essendo una commedia scalfisce solo la superficie, vediamo solo la punta dell’iceberg. Infatti, il personaggio interpretato da Valentina Lodovini ha una mania della pulizia che le deriva dall’essere vittima di revenge porn, problema oggi attualissimo che ha spinto tante donne al suicido mentre qui giustifica il corcare di botte il reo da parte di Santamaria (insomma giustizia fai da te e siamo tutti contenti!).
Non era meglio virare su un registro più drammatico o amaro? Citavo prima “Si può fare” del 2008, dove un gruppo di “matti” prova a migliorarsi, ma alla fine si verifica una tragedia e l’operato dello psicanalista “illuminato” termina. Alle case di produzione importa cinicamente soltanto che un film incassi, (guardate cosa sta succedendo per Joker 2 ad esempio), ed è una “regola” che una commedia facendo ridere incasserà di più di un film con toni meno leggeri.
Immancabile poi il lieto fine, dove tutti, ma proprio tutti sono contenti, felici e soddisfatti. Non una punta di amarezza, né di delusione… quanto di più lontano dalla vita vera e dai suoi problemi più o meno grandi.
Ci troviamo dunque di fronte all’ennesima occasione persa (coscientemente) per un film italiano, ovvero ottime tematiche che poi devono piegarsi al grande pubblico, banalizzando il tutto.
Valentina & Gabriele