Abbiamo oggi l’onore di avere sul nostro blog un ospite d’eccezione: il poliedrico Lorenzo Palloni che ringraziamo per la disponibilità!
Partiamo subito con le domande: Quale è stato il tuo primo approccio al mondo fumetto e quando hai capito che questo era il lavoro che volevi fare?
Ero bambino, avrò avuto tre o quattro anni, ho visto in TV un ragazzino americano che leggeva fumetto di Superman, prima non ne avevo visti dal vivo – o almeno, non ricordo. Sono voluto andare in edicola con mia mamma a vederli, mi sono fatto promettere che quando sarei cresciuto me li avrebbe comprati. Così è stato, con grande insistenza.
La storia è lunga ma breve: lì dentro c’era tutto, poteva esserci tutto. Poi fumetto americano, supereroistico, fino ad Alan Moore e alla scoperta della British Invasion. Disegno da sempre, è proprio un bisogno comunicativo, e ho sempre letto moltissimi libri in prosa – e non è stato difficile fare due più due. Il fumetto è l’unica cosa che abbia mai fatto, letteralmente, ed è l’unica che so fare. Ho avuto un solo dubbio in vita mia, alla fine del liceo. Potevo andare a fare una scuola per investigatori privati a Narni o alla Scuola Interazionale di Comics di Firenze che in un tema in seconda elementare avevo giurato avrei fatto. Ed eccoci qua, più o meno.
Quanto di te c’è nelle storie in cui scrivi?
Molto, lateralmente parlando. Uso l’esperienza privata e del mondo che mi circonda come benzina, ma moltiplicata, esasperata e drammatizzata. I personaggi non sono mai persone che conosco, ma sempre sublimazioni empatiche al servizio di quello che devo raccontare.
L’importante – ed è dovere di tutti i narratori – è rendere onore alle cose che rubi. Bisogna rubare. Io rubo moltissimo dalla mia vita, dai miei cari, dagli sconosciuti, dai libri che leggo. Ne è un esempio l’uso che faccio delle citazioni. È un distributore di risorse infinito, il mondo intorno, ma gli va reso onore cercando di raccontare al meglio delle proprie possibilità.
Mi interessa raccontare a tutti, trasversalmente, e il pop, il mainstream – come lo volete chiamare – è un terreno di gioco portentoso. Quindi quello che uso di mio – a patto che mi serva – lo annego in un mare di fiction, di avventure, di assurdità, di riflessioni, in modo che non sia mai riconosciuto. Bisogna dire che mi annoia parlare di me, non so mai bene che dire, non sono così interessante. L’irrealtà lo è sempre di più.
Quale è stato il lavoro che ti ha creato le maggiori difficoltà e come le hai risolte?
“Burn Baby Burn”, uscito nel 2022 in Francia per Sarbacane e l’anno dopo in Italia per Saldapress. 13 anni di scrittura iniziati nel 2009, decine di riscritture, false partenze. All’inizio doveva essere in due libri. Era un racconto alla Ellroy, ispirato a quella sintesi e ai mondi losangelini di corruzione e degrado. I temi: il razzismo, la violenza civile, le rivolte sociali e razziali degli anni ’60, in particolare le Race Riots del ’92 e del ’65.
Complicatissimo da scrivere perché srotolato su due linee temporali, sei personaggi per timeline, lungo 202 pagine – nell’ultima versione, perché nella prima era di 560 – e tutto basato su fatti storici. Doveva essere un cosiddetto romanzo storico, Sulla parte storica mi sono fatto aiutare dalla UCLA, in particolare dal dipartimento di Storia Afroamericana. Il resto era un casino. Non ne venivo a capo, erano due storie fredde e sterili, solo una dedica d’amore all’hard boiled metropolitano americano.
Poi però ho capito che incastrare le due storie, farle diventare una sola, con un colpevole in comune, avrebbe fatto esplodere il significato del razzismo e della violenza che si perpetra attraverso i decenni. Meno è meglio, sempre. Adesso è uno dei miei libri che più mi soddisfa, e al contempo è uno dei più complicati e pesanti. L’importante è che sia tondo, compiuto e che non mi ossessioni più come faceva prima di essere pubblicato.
Quali sono i vantaggi, secondo te, nell’essere autore completo di un’opera a fumetti?
Hai il controllo di tutto. Del tempo, del ritmo, dello stile. È come avere la partita IVA ma senza le tasse. Sei il tuo capo, quindi sei anche il peggior capo – quello più esigente. Certo, non devi cadere nei tuoi stessi BIAS. Crei i tuoi mondi, dai il tempo e lo spazio che vuoi a pezzi di quei mondi. Sei giudice, giuria e boia dei tuoi personaggi, che devi amare e odiare e devono lasciarti indifferenti – tutto al tempo stesso.
Essere autore unico è espressione di una volontà di potenza esaltante, primitiva. Solo i maniaci del controllo ci riescono bene. Quelli che poi sanno anche passare dal ruolo di scrittore a disegnatore all’altro e viceversa e hanno – mettiamo – altre storie da raccontare, cercheranno altri disegnatori con nuovi storytelling perché i propri li conoscono a menadito. E magari scriveranno per quei disegnatori, oppure disegneranno ogni tanto per qualche altro sceneggiatore, ed eviteranno di cadere nella trappola più banale ed efferata che ci sia: non riuscire più a sorprendersi. La sorpresa, la vera fiamma del nostro lavoro, va tenuta accesa. Ed essere sempre in controllo non fa mai bene alla testa, ti aggroviglia, ti fa perdere di vista lo scopo. Va lasciata un po’ di corda alle storie.
Ormai è assodato che nel palcoscenico fumettistico sei un astro in continua ascesa, come vivi questa cosa? Ti crea pressione o hai creato una camera stagna dove nulla può entrare?
Vi ringrazio, ma vi dico anche due cose: uno, è facile sembrare bravo tra pochi; due, il settore è molto piccolo, il mercato è molto piccolo. Io vivo di fumetto ma è un miracolo se non sei Zerocalcare o se non lavori per Bonelli o per i Francesi come disegnatore di schifezze fantasy.
Vivere di fumetto da autore è una benedizione – anche questa da onorare, come il furto di cui parlavamo prima – ma anche una maledizione che comporta cose come trovare il tempo di rispondere a questa intervista a mezzanotte e mezzo senza aver smesso di lavorare dalle 8 di mattina. Detto questo: zero pressione e qualche camera stagna.
Mi spiego meglio: non sarò mai famoso, davvero famoso, e lo so perché non faccio storie che possono avere un’audience smisurata. Racconto quello che voglio, ho il rispetto del mio settore ma soprattutto dei miei lettori. Che pressione dovrei sentire? Sono molto orgoglioso di quello che ho fatto fin qui – anche perché il fumetto è meritocratico, vale solo il gioco sul campo, è oggettivo. O fai fumetti e ci sei, o non li fai e non ci sei. Questo a livello pubblico.
A livello personale credo di essere più o meno a un terzo di quello che penso sia la qualità che posso esprimere. Ho dei limiti fortissimi, spesso mi trovo chiuso in un labirinto di formalismo che rischia di portarmi fuori strada, e allora devo accorgermene e trovare nuove vie. Io dico sempre che “ogni limite è un nuovo stimolo”, ma diciamo che potrei avere molte camere stagne se non capissi di esserci chiuso dentro e ne uscissi in tempo. A livello creativo però è importante sapersi concentrare e usare la compartimentazione, come insegna la CIA: lavorare contemporaneamente su più cose, senza che si tocchino, o se lo fanno tenere sotto controllo tutto e gestire le conseguenze.
Come ti sei sentito quando Saldapress ti ha inserito nella collana “Maestro” insieme ai grandi del fumetto, come ad esempio Ed Brubaker?
Un onore immenso. Con i fumetti di Brubaker ci sono cresciuto. Con Sean Phillips anche, forse di più. Il suo ciclo di Hellblazer scritto da Paul Jenkins era così umano, così vicino a noi, era incredibile per un lettore di 14 anni. Ci sono nomi nella collana Maestro che mai mi sarei immaginato di sfiorare ad una fiera, figuriamoci essere nella stessa collana, sedersi vicino a cena e parlare con loro. Penso ad Howard Chaykyn. E all’ultima Lucca Comics abbastanza allucinante a stare sul palco con i Phillips, padre e figlio. Insomma, molto orgoglio. Ho sempre paura che questo voglia dire “bruciare le tappe”, poi mi ricordo che ho 37 anni, di libri ne ho fatti, non sono più giovane non ho tappe da bruciare!
Quale è il tuo fumetto preferito e quale quello che avresti voluto disegnare?
Non ne ho di preferiti, sono davvero troppi. Ma ne ho uno che significa moltissimo per me che è “Città di Vetro” di Paul Karaisk e David Mazzucchelli, tratto da un racconto di Auster. Paul Karasik era mio insegnante alla Comics di Firenze proprio quando mi sono approcciato al fumetto non-supereroistico che ho ingurgitato per 15 anni. È stata una delle prime graphic novel che mi abbiano fatto capire come il linguaggio – in tutti i sensi possibile – sia una materia infinita da plasmare a tuo piacimento, seguendo poche e semplici regole che rendono ancora più interessante il gioco. Fumetto che avrei voluto disegnare, invece, “Longshot Comics” di Shane Simmons. Se non lo conoscete – male, in ogni caso, ha vinto l’Eisner Award, è un capolavoro – correte a vederlo e poi a leggerlo.
Che consiglio ti senti di dare a chi si avvicina a questo mondo lavorativo?
Insegno fumetto e storytelling da quando avevo 18 anni e i consigli sono più o meno sempre quelli: mai essere permalosi, far leggere il più possibile le vostre storie agli altri; capire che non possiamo essere obiettivi su qualcosa che abbiamo scritto e disegnato noi (non lo vedremo mai con gli occhi degli altri, i più importanti); essere sempre pronti a cambiare idea, segno, inquadratura, parola, fino a quando non si è in stampa.
Non smettere mai, fare fumetti sempre, anche quando non li fai. Avere sempre un taccuino con sé. Ma mai fare fumetti con i fumetti: rubare sempre e comunque e volentieri dalla vita, senza pietà, e da tutti gli altri medium, rimasticare, infettare, innovare, riempirsi di limiti perché ogni limite è un nuovo stimolo, far diventare un’ossessione il racconto – se già non lo è. Capire che il disegno non c’entra con il fumetto ma che il fumetto c’entra con il disegno. Ma dopo 18 anni ho un addendum: farla diventare un’ossessione fino a che non ti accorgi che ti mangia gli affetti e l’attenzione e la cura per il prossimo, a quel punto fermarsi. Capite i vostri limiti e giocate all’interno del campo, ne guadagnerete voi, la vostra vita, le storie che raccontate. È davvero tutto qui.
Ringraziamo Lorenzo che, nonostante i mille impegni, ci ha regalato questa stupenda chiacchierata. Sempre estremamente interessante scoprire il “retro” del lavoro che ruota attorno ad un fumetto e di come, ogni artista, abbia un modo tutto suo di affrontarlo. L’appuntamento è al prossimo lavoro di Lorenzo che, ne siamo certi, ci stupirà.