Maxxxine: la chiusura di una trilogia atipica!

Dopo “X: a sexy horror story” e “Pearl”, entrambi del 2022, ecco il capitolo conclusivo della saga ideata da Ti West con Mia Goth protagonista, nei panni di Maxine Minx.

Perché si tratterebbe di una “pseudo” trilogia? Questo giudizio così tranchant nasce dalla considerazione che i 3 film realizzati sono tra loro scollegati, tanto che potete andare a vedere Maxxxine senza aver visto i primi due e riuscirete comunque a comprendere la storia senza avere la necessità di capire cosa è successo nei lungometraggi precedenti. Già, ma cosa è accaduto prima di Maxxxine?

Nel primo film, ambientato negli anni ’70, si verificava un massacro in una fattoria, dal quale sopravviveva soltanto Maxine Minx. Si trattava dunque di una rivisitazione dell’horror rurale e la storia doveva in realtà chiudersi così. Il successo di “X: a sexy horror story” però ha cambiato le carte in tavola, e come spesso avviene nella cinematografia, “pecunia non olet”, e dunque i produttori hanno spinto Ti West a concepire altre due opere collegate alla prima.

È stato quindi realizzato “Pearl”, prequel di X – A Sexy Horror Story, dove però Mia Goth non interpreta Maxine Minx ma Pearl, la psicopatica massacratrice del primo film. In Maxxxine invece ritroviamo il personaggio della Minx alcuni anni dopo, e ne parleremo abbondantemente. Una trilogia dunque che non segue l’evoluzione di un unico personaggio né una vicenda passo passo: si parte dagli anni ’70, poi si torna indietro nel tempo al 1918 per poi approdare in Maxxine, anni ’80.

Trilogia dunque atipica, difficilmente inquadrabile anche come genere, perché mischia horror, thriller, splatter con un pizzico di softcore. Se nei primi due film questo mix è riuscito, vedremo in Maxxxine come forse la magia questa volta non abbia funzionato appieno.

C’era una volta Hollywood (negli anni’80) secondo Ti West.

Quanto è anni ’80 questo fotogramma?!

Ti West condivide con Tarantino almeno due caratteristiche: entrambi si sono fatti una cultura cinematografica nelle videoteche delle cittadine dove sono cresciuti ed ambedue amano mischiare i generi quando realizzano un film nonché omaggiare i lungometraggi del passato con citazioni fin troppo evidenti. Ecco dunque che anche Ti West, come Tarantino, decide di raccontare la “sua” Hollywood, quella degli anni ’80, un contrasto tra gli sfavillanti studios cinematografici e le strade quasi mai sicure e mal frequentate di notte (ve lo ricordate che Pretty Woman batteva sull’Hollywood Blvd proprio alla fine degli ’80?).

Siamo nel 1985, non ci sono riferimenti iniziali al massacro del primo film avvenuto negli anni ’70, e soprattutto non sappiamo cosa abbia fatto nel frattempo la protagonista Maxine Minx, ma poco importa.

Lei per certi versi è già “arrivata”, almeno come star del cinema a luci rosse che in quel periodo sta vivendo la sua “golden age” grazie alla diffusione del VHS. Maxine infatti “sembra” una vincente, sfreccia per Los Angeles a bordo di una Mercedes decappottabile (lo stesso modello di quella usata da Richard Gere in American Gigolò, che citazione), ondeggia su tacchi a spillo che all’occorrenza utilizza anche per evirare il maniaco di turno incontrato in un vicoletto buio e lurido. Nonostante la fama però, Maxine è ancora costretta a integrare le sue entrate apparendo nei peep show. Anche per quello è molto decisa a fare uno scarto di carriera – che per una porno star può essere il cinema horror.

“Nella mia professione, finché non sei conosciuta come un mostro, non sei una star!”

Il film inizialmente cita questa frase di Bette Davis, la quale sarà anche omaggiata nella canzone finale. Chiaro è il riferimento all’aspirazione che accomuna queste due donne, forti della loro ambizione e consapevoli degli ostacoli che l’industria cinematografica di quel periodo pone loro davanti.

Come Bette, Maxine si fa strada all’interno di un sistema dominato dagli uomini e cerca di scardinare parte di esso a modo suo: diventa così “il mostro”, disposta a tutto – anche alla violenza – pur di raggiungere il successo. Se la Davis ha sfidato gli Studios per ottenere la completa libertà di scegliere i progetti, Maxine allo stesso modo punta alla fama e all’affermazione di sé, ossessionata da una vita che merita di essere vissuta. Ovviamente secondo le sue regole.

Maxine è un personaggio che non può esserci simpatico, dice di voler essere la nuova Brooke Shields e rinnega Marylin Chambers, cocainomane e guerriera quanto lei. È spocchiosa, ambiziosa e menefreghista di tutto e di tutti (rifiuta anche di aiutare la polizia a fermare il serial killer che aleggia per tutto il film con i suoi omicidi, nonostante uccida il suo miglior amico). Sembra essere uscita illesa dal massacro texano del primo film, ma in realtà svela un lato sadico e violento quando si tratterà di salvarsi la pelle.

“Sei arrivata fino al ventre della bestia, complimenti, sono in pochi ad arrivare fin qui. Per restare qui, devi farne la tua ossessione!”

Maxine ed Elizabeth, due donne toste in che sgomitano per affermarsi in un mondo maschilista.

La concretezza e fiducia di Maxine sono messe alla prova dalla regista Bender, interpretata da Elizabeth Debicki. Maxine infatti cerca di liberarsi dei pregiudizi dei produttori cinematografici riguardo il suo essere un’attrice porno. Ottiene finalmente la sua occasione, ovvero recitare come protagonista nel sequel di La Puritana, nel quale dovrà anche mostrare il seno (nomen omen). La regista le consiglia di concentrarsi totalmente sul lavoro, è arrivata dove voleva ma “per restare qui, devi farne la tua ossessione. Elimina tutte le altre distrazioni, perché se distogli lo sguardo da quel premio anche solo per un momento, la bestia ti sputerà indietro, proprio da dove sei venuta!”.

A complicare però la scalata nell’olimpo di Hollywood però ci si mette un misterioso serial killer che uccide giovani donne (la cui prossima vittima potrebbe proprio essere Maxine) ed uno sgangherato e pasticcione investigatore privato che ricerca proprio Maxine, interpretato da Kevin Bacon, che se la canta e se la suona ma alla fine fa la figura dell’imbecille e… NO SPOILER!

I personaggi secondari, ovvero delle macchiette mal riuscite!

Veniamo ora ai personaggi che fanno solo da contorno alla storia di Maxine, protagonista indiscussa del film. Ti West si è concentrato a tal punto su di lei tralasciando un qualsiasi tipo di sviluppo e profondità della personalità degli altri attori presenti nel film. In primis abbiamo appunto John Labat (alias Kevin Bacon), in un ruolo stereotipato da detective privato vestito male e con una dentatura anche peggiore! È un viscido e prova a fare il misterioso cercando di spaventare la “vittima” Maxine, cercando di indurla ad abbandonare la vita che sta facendo perché il suo committente lo paga per questo (si scoprirà nel finale chi sia quest’uomo).

Un dubbio Kevin Bacon

Un Kevin Bacon sprecato, ma la sfilza di attori famosi che hanno fatto a botte per partecipare a questo film non è finita e testimonia di come questa trilogia di Ti West sia molto considerata nell’ambiente cinematografico statunitense e non solo.

Ecco dunque che oltre a questo investigatore ed alla regista di cui abbiamo sopra detto (anche lei personaggio assolutamente piatto che non fa altro che fare la dura e scimmiotta gli uomini anche con il taglio di capelli corto), abbiamo altri personaggi al limite del ridicolo e dell’inverosimile.

Giancarlo Esposito interpreta l’agente di Maxine e la tira letteralmente fuori dai guai con metodi alquanto discutibili e ben poco legali.

L’agente che tutti vorremmo avere per sfondare.

Abbiamo poi una coppia di detective assolutamente ridicola, composta da una donna tosta (ma guarda un po’) interpretata da Michelle Monaghan e da un mezzo cialtrone (a mio parere Bobby Cannavale meriterebbe di nuovo ruoli da protagonista) che non fa altro che ricordare che lui avrebbe voluto fare l’attore. Due improbabili poliziotti che non vengono a capo di nulla se non seguendo Maxine.

L’espressione di lui dice tutto sulla sua intelligenza

Il finale del film… Ovvero come rovinare una trilogia (Attenzione SPOILER!)

Come detto, mentre Maxine cerca di essere una brava attrice, è perseguitata da un investigatore privato che le mostra dei fotogrammi del film porno mai realizzato nella fattoria luogo del massacro del primo lungometraggio. E qui abbiamo il primo buco della sceneggiatura… non si sa infatti come e chi sia venuto in possesso di tali immagini, ma – soprattutto – sembra che questo filmato sia nelle disponibilità della polizia del Texas… e allora come mai Maxine che comunque è famosa per le sue performance sessuali nei film XXX (da qui il rimando anche nel titolo ai porno) non è stata ancora collegata a quella strage?!

Oltre questo, abbiamo un misterioso serial killer che gira con dei guanti neri ed uccide le sue vittime come nei film di Dario Argento (altro omaggio alla cinematografia amata da Ti West). Ecco appunto, l’omicida seriale è la parte meno riuscita di tutto il film. Innanzitutto Ti West ha avuto talmente poca fantasia da utilizzare il nome di “night stalker“, assassino effettivamente esistito nella Los Angeles anni ’80 e che si presentò a processo con una stella a cinque punte tatuata. Tale marchio è presente anche nelle vittime del film e l’aver utilizzato lo stesso nome è servito soltanto a poter utilizzare i telegiornali dell’epoca. Insomma qui di innovativo abbiamo ben poco. Ma il peggio arriva con il finale!

Un tipo poco rassicurante (ovvero il padre di Maxine!).

Attenzione spoiler! Si scopre nel finale che il misterioso serial killer e colui che aveva commissionato di ritrovare Maxine all’investigatore John Labat, altro non è che il padre di Maxine!

Si tratta di un predicatore di cui abbiamo già delle immagini alla TV mentre fa un suo sermone nel primo film di questa trilogia. Si capisce dalle sue parole che Maxine è scappata di casa per inseguire il suo sogno di diventare attrice (che inizi con i porno è un dettaglio anche se il padre non l’ha presa tanto bene!).

Il padre di Maxine la attira in una casa sulle colline di Hollywood e cerca di redimerla, pena la morte, attraverso un documentario in cui vorrebbe eseguire una sorta di esorcismo per far tornare la figlia ad una vita morigerata e moralmente integra. Anche in questo caso però è una macchietta, un invasato e bigotto americano bianco del midwest, che Ti West cerca di rendere credibile, fallendo miseramente.

La sparatoria finale e la scalata in Griffith Park sotto il logo hollywoodiano si trasforma in una farsa raffazzonata che sarebbe bello pensare sia sta fatta di proposito, ma che invece ha le fattezze del raffazzonamento di fine budget/riprese/idee… con Maxine che, armata di fucile, mentre lo punta verso la testa del padre, si immagina come una celebrità accreditata per aver aiutato a fermare tale killer, partecipando alla première di The Puritan II e rivelando in un’intervista che la regista del film, Elizabeth Bender, dirigerà un film biografico su di lei.

Ritornando alla realtà, spara a suo padre, dicendogli che le ha dato ciò di cui aveva bisogno: un intervento divino, grazie al quale lei è ormai una stella nel cielo, come allude apertamente l’infinito e vertiginoso movimento aereo della cinepresa durante i titoli di coda, ancora più simbolicamente coerente perché palesemente fittizio, creato in postproduzione.

Insomma, il finale è tutto “troppo”.

Il film accelera di colpo e si perde. Sarebbe stato meglio dedicare 10 minuti in più di riprese, magari rivelando il rapporto tra padre e figlia nell’adolescenza di lei e chiudendo le diverse lacune della sceneggiatura. Un peccato insomma ed un difetto che invece non è riscontrabile nei primi due film della trilogia.

“Non accetterò una vita che non merito!” : analisi del film e giudizio complessivo.

La frase sopra citata è detta all’inizio del film dalla protagonista ancora bambina incitata dal padre a farla sua. Non sa il genitore che tale frase Maxine la farà sua fino alle estreme conseguenze, ovvero uccidendolo per poter aspirare alla fama tanto agognata. Lei vuole essere una “fottuta star” e non solo una “star fottuta”, anche perché l’America Reganiana è diventata un ambiente ben più oscuro e ostile dove cercare di “primeggiare”.

Hollywood è diventata una Babilonia di perdizione e oscurità che non fa sconti a nessuno e dove sopravvivere significa essere disposti a tutto.
Sono anche gli anni in cui le strade delle città di giorno vengono prese d’assalto da cortei guidati da predicatori cattolici dell’ultradestra che gettando benzina sull’ala più estrema e conservatrice radicalizzata nel paese appiccano fuochi contro tutti i responsabili di quella corruzione sessuale e dei costumi incarnata proprio dalla Hollywood contemporanea (promiscuità, pornografia, droga).

La struttura del racconto è in sé classica soprattutto nell’utilizzo degli elementi specifici del thriller ( o meglio “slasher”) e cerca di mescolare altri generi quali horror e softcore, ma entrambi sono molto meno presenti rispetto ai primi due film della trilogia.

Maxxxine è presentato come film horror ma non lo è proprio, è presente solo una o due scene splatter assolutamente evitabili e gratuite.

Se volessimo poi dare un giudizio sul regista, possiamo dire che abbia una cultura cinematografica ragguardevole che però non fa altro che spiattellarci in quasi ogni inquadratura, dal naso fasciato di Kevin Bacon alla Chinatown, alla corsa sul set di Psycho e Ritorno al futuro, fino al trucco di Maxine simil Pris di Blade Runner.

La stessa Maxine non ha dei colori a caso: è abbronzata, bionda, sciorina ombretti e couture colorati, patinati. Pare che Ti West voglia, anche in questi dettagli, citare le cinematografie underground americane rifacendosi a Paul Morrissey e il “ricolora” Joe Dallesandro nella sua trilogia: Flesh, Trash e Heat… fascia e pallore newyorkese prima; abbronzatura e riflessi californiani poi.

Probabilmente in un mondo cinematografico che spesso replica se stesso specialmente nel genere thriller ed horror un regista come Ti West non poteva che essere acclamato, ma pur riconoscendone un’indubbia capacità registica (basti vedere le sue puntate della bellissima serie Them, quasi sempre le migliori di ogni stagione), è sempre stato un mistero vedere osannare lavori terribilmente derivativi e sempre pavidi ad andare fino in fondo come House of the devil o Innkeepers.

Poi però sono arrivati la A24 e Mia Goth. Ma se i primi due film sono stati innovati, quest’ultimo sembra solo un X – A sexy horror story appena più “pompato” e curato diventa sempre più forte quando MaXXXine tragicamente decide di abbracciare un terzo atto scialbissimo e tutto in calando, tirato via e “moscio”, capace di banalizzare invece tutti gli ottimi elementi che in qualche modo fino a quel momento sembravano essere stati cucinati benissimo.

Dove Pearl non aveva alcuna paura di svincolarsi dalle gabbie del genere azzardando soluzioni inedite e strade imprevedibili, MaXXXine sembra invece spaventarsi proprio quando è il momento di arrivare al dunque, facendo un dietrofront che paradossalmente rischia di scontentare anche quel tipo di pubblico “generico” a cui invece con questa scelta suicida vorrebbe probabilmente ammiccare.

Inoltre, come detto, nonostante vi sia un cast di livello, nessuno è capace minimamente di emergere dall’implacabile e mostruoso turbine di ego di Mia Goth (anche produttrice, ovviamente), tanto che alla fine della fiera più che essere stati valori aggiunti, fanno la figura di essere partecipanti ad una ipotetica gara tra “chi riuscirà ad essere il personaggio più cool del film” e che li condanna ad essere ricordati come mere macchiette stereotipate.
E quindi è corretto promuovere questo film? Ni.

Infatti pur rischiando di essere ben meno eclatante rispetto alle aspettative che si portava dietro, rimane un prodotto di genere che in un mare magnum di necrofili revival fini a se stessi, dimostra orgoglioso di amare e conoscere veramente quello che racconta con una sincerità e una devozione verso il cinema (inteso proprio come “mezzo”) che, spontanea o no, non può comunque passare inosservata.

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