
Arrivato il 5 giugno nelle nostre sale con (colpevole) ritardo rispetto a quando è uscito in Francia, L’amor ouf (tradotto orrendamente con L’amore non muore), ha ottenuto 12 candidature e vinto un premio ai Cesar oltre ad essere campione d’incassi nella terra natia. E’ un film fuori dagli schemi, che unisce diversi generi tra cui il melodramma teen, visto che inizia raccontandoci la storia d’amore di due adolescenti, ma vira poi verso il crime ed il prison movie, per poi tornare alla love story di partenza anni dopo.
La trama: un 3 metri sopra al cielo dove l’amore trionfa (in età adulta!).
Anni Ottanta, nord della Francia, dieci anni prima. In una cittadina operaia – il fuoco delle fornaci della fabbrica sovrasta le azioni dei protagonisti – si è appena trasferita Jacqueline, orfana di madre per un terribile incidente avvenuto sotto i suoi occhi. Il padre accudisce morbidamente quella bambina che crescendo saprà indurirsi ai limiti della sfacciataggine.
È quando si trasferisce al liceo pubblico della zona, dopo essere stata espulsa per insolenza dall’istituto cattolico che frequentava, che Jacqueline farà l’incontro destinato a scombussolarle la vita. Davanti alla sua nuova scuola transita perenne un trio di teppistelli, pronto a insultare ogni giorno gli studenti in discesa dallo scuolabus.
Ma Jacqueline non è tipo da farsi parlare dietro: alle provocazioni di Clotaire reagisce con un distaccato sarcasmo che si tramuterà presto in curiosità e in travolgente primo amore. È lui a soprannominarla Jackie, diminutivo che porterà con sé tutta la vita, e a farle scoprire un fugace senso di ribellione e una passione emotiva che sembra assoluta.
Ma Clotaire si mette nei guai, finisce in prigione per dieci anni e quando esce non ha altro in mente che riprendersi la sua Jackie, ormai sposata con un dirigente di una società di noleggio di automobili – dal comportamento passivo-aggressivo sotto la patina di bravo marito borghese – e che forse non lo ha mai dimenticato.

Un curioso mix di generi che incolla allo schermo.
Partiamo dal titolo, che come detto, è stato purtroppo tradotto malamente in italiano con “L’amore non muore” (un mezzo spoiler che si poteva evitare!). Il verlan è un linguaggio gergale francese molto utilizzato dai giovani, caratterizzato dall’inversione delle sillabe di una parola. È così che la parola fou, pazzo, diventa ouf, come nel titolo originale, ovvero L’Amour Ouf.
Due parole che meglio non potrebbero descrivere l’energia pulsante di questa storia, quella di un amore adolescenziale che brucia l’anima, che mantiene il fuoco acceso nonostante tutto ciò che può accadere: non è un caso se i momenti più belli di questa storia sono quelli in cui racconta l’innamoramento tra una ragazzina sveglia e un romantico teppistello, tra dischi dei Cure, giri in motorino e canzoni ascoltate alla radio da registrare su musicassetta.

L’amour ouf dunque è dunque un melodramma sentimentale, un racconto criminale, una storia di formazione, il racconto accorato di una lotta per la felicità. Il tutto inframmezzato da estemporanei momenti musical – il primo dei quali coreografato sulle note di A Forest dei Cure, gruppo preferito di Jackie – che affastellano di ulteriori suggestioni questo fiammeggiante polpettone di quasi tre ore.
Non condividiamo chi vede in questo film West Side Story, perchè lì i due innamorati erano osteggiati dalle loro famiglie a mo’ di Romeo e Giuletta mentre qui sono forse più in gara col destino, che alla fine nulla può contro la loro attrazione.
C’è chi vede rimandi a Carlito’s Way, dato l’ambiente proletario e le passioni elementari, i generi ed i toni in un’operazione tonitruante priva di sfumature. E se la parte dedicata agli adolescenti è virata su toni più tenui e romantici, quella di Clotaire e Jackie adulti – interpretati da François Civil e dalla sempre magnifica Adèle Exarchopoulos – è segnata da un ritmo adrenalinico che si ripete sempre uguale, come un metronomo impazzito.
Il film esibisce un controllo tecnico e visivo notevole: camera in costante movimento, cromatismi esasperati, montaggio sincopato e intermezzi tendenti all’epopea musicale. L’universo narrativo che ne deriva è fortemente artificiale, non tanto per sfidare la verosimiglianza, quanto per costruire un film-mondo.
Un’opera, quella di Lellouche, che si regge su regole personali, implosioni controllate, un linguaggio iperbolico e una scala morale interna. Egli cerca uno stile che è sempre inadatto rispetto a quello che vuole mostrare.
Nella consapevolezza di questo limite lo cambia in corsa, accelera per non perdere tutta la passione che ha messo dentro nella sceneggiatura scritta assieme ad Ahmed Hamidi (con cui aveva già collaborato in 7 uomini a mollo) e Audrey Diwan. Ha la follia e l’incoscienza di un esordiente o di un cineasta che decide di giocarsi il tutto per tutto.

La regia di Lellouche è sovraccarica, piena di trucchetti visivi e di reiterazioni, con una messa in scena frenetica dal sapore vagamente trucido. Il risultato è un film strabordante, incoerente, diseguale, inzeppato di finali e sottofinali – del resto, L’amour ouf inizia con una fine –, urlato e musicato fino all’eccesso. In qualche modo però riesce a generare momenti di sincera emozione, di inaspettato divertimento, di irrazionale empatia. Un film inutilmente bigger than life – forse troppo lungo (166 minuti!), magari troppo ripetitivo… eh si anche troppo sentimentale, troppo tutto – che potrebbe però essere amato come un irragionevole piacere proibito.
Guardandolo resta un rimpianto sul cinema italiano, incapace di raccontare l’amore adolescenziale senza ripetere quanto fatto in 3 metri sopra il cielo (film che ha rovinato una generazione e fatto la fortuna dei venditori di lucchetti!). Da noi non si osa, non si fa nulla di nuovo quando si tratta di love story tra giovani o adulti.
Sempre commediole più o meno leggere, divertenti, con qualche momento drammatico, ma nulla di più! Mai ci saremo aspettati un film che, pur avendo come sostrato una relazione, ha punte di violenza quasi fossimo in un film di Tarantino e ci racconta nei dettagli le rapine compiute dal co-protagonista maschile. Ad avercene di film che reinventano i generi e li mischiano dandoci qualcosa di nuovo!