
“La struttura alare del calabrone, in relazione al suo peso, non è adatta al volo, ma lui non lo sa e vola lo stesso”, recita una famosa massima popolare e, per quanto non scientificamente accurata, il suo significato rimane invariato: si possono superare le proprie debolezze e trasformarle in punti di forza.
Ed è questo il messaggio nella bottiglia che ci arriva dall’isola de Il Robot Selvaggio, l’ultimo film di animazione della DreamWorks, per la regia di Chris Sanders (regista di Lilo & Stitch e Dragon Trainer).
La protagonista è Roz, un robot di ultima generazione che a seguito di un naufragio si trova catapultata in un’isola deserta, popolata esclusivamente dalla fauna locale. Sull’isola, in cui è assente ogni attività umana, Roz non può espletare il compito per cui è stata programmata: assistere gli esseri umani nel risolvere problemi quotidiani. Si trova, invece, alle prese con una missione che non era preparata ad affrontare: fare da madre a un cucciolo d’oca rimasto orfano, Brightbill (Kit Connor).
Maternità biologica e adottiva
La maternità si configura così come un tema centrale de Il Robot Selvaggio, che la associa implicitamente al genere femminile: infatti, nonostante l’intrinseca assenza di genere biologico in un robot, Roz è rappresentata come un robot ‘femmina’, a partire dalla voce (quella di Lupita Nyong’o nella versione originale). Il film da una parte si pone in linea con la narrazione tradizionale che vede il senso materno come prerogativa femminile, dall’altra crea un discorso importante sulla genitorialità adottiva, opposta a quella biologica. Infatti, attraverso le sue scelte attive, seppur in contrasto con la sua natura, Roz diventa a tutti gli effetti una mamma in grado di crescere il suo cucciolo di oca e prendere delle decisioni per il suo bene.
Diversità e accettazione
Sia Roz che Brightbill sono a loro modo degli emarginati: Roz è un robot che non appartiene all’isola e non si mimetizza con i suoi abitanti, mentre Brightbill non è accettato dai suoi simili a causa delle sue caratteristiche fisiche.
Il cucciolo ha le ali troppo piccole per volare come le altre oche. Inoltre, essere cresciuto da un robot – un mostro per gli altri abitanti dell’isola – non fa che aumentare la sua emarginazione. A loro si unisce Fink, una volpe cinica e solitaria (con la voce di Pedro Pascal), che nasconde ovviamente dei buoni sentimenti.
Insieme il trio dimostrerà che essere diversi non è necessariamente un difetto, ma può essere invece un’arma.
Il binomio biologia e tecnologia
Il robot selvaggio offre degli spunti di riflessione interessanti sul binomio biologia/tecnologia, mostrando come un robot possa sviluppare dei sentimenti che trascendono la componente logica e il compito per cui è stato programmato. Allo stesso tempo, mostra come anche gli esseri viventi possano mettere da parte i propri istinti naturali per raggiungere un bene comune superiore.
Così come Roz impara a nutrire dei sentimenti per il suo cucciolo di oca, gli abitanti dell’isola selvaggia possono mettere da parte inimicizie e ostilità (più o meno naturali) per fronteggiare il nemico e garantire la sopravvivenza della loro isola. Anche accettare Roz come parte integrante della comunità, seppur diversa da loro, fa parte di questo processo di “evoluzione”.
Morale della favola
Si tratta ovviamente di una visione favolistica della realtà: per quanto sia improbabile che i robot possano provare dei sentimenti e i predatori fare amicizia con le loro prede, Il robot selvaggio parla a un pubblico di esseri umani, e per loro – per noi – crea una narrazione che vuole ricordare l’importanza dei legami umani, siano essi familiari o di amicizia, come strumento per comprendere la diversità e favorire l’integrazione.
Gli spunti filosofici sono accantonati per far leva di più sulle emozioni che controllano l’intero sviluppo della trama per far breccia nel cuore del pubblico, a cui non viene lasciata molta scelta se non fare il tifo per Roz e Brightbill e per il loro improbabile ma delizioso legame.