
Dopo aver ridato vita al franchise di Rocky con Creed e aver portato in auge il personaggio di Black Panther nel Marvel Cinematic Universe, il regista Ryan Coogler torna con un film che cela l’ambizione di mescolare generi diversi e di fare un’opera con messaggi e citazioni storiche non banali .
Distribuito da Warner Bros Italia ha come protagonista Michael B. Jordan in un duplice ruolo, quello dei gemelli Smoke e Stack. I due gaglioffi, con un passato da soldati durante la Grande Guerra, tornano nella loro città natale – la rurale Clarksdale, luogo di mezzadri e cantanti blues – alla ricerca di un nuovo inizio dopo essersi arricchiti lavorando per Al Capone.
Rilevano una vecchia segheria con l’ambizione di trasformarla in un juke joint (l’antenato dei night clubs ) e per la serata inaugurale coinvolgono anche il giovane cugino, Sammie Moore (l’esordiente Miles Caton molto promettente!), figlio di un reverendo, dal talento musicale inarrivabile.
Ed è proprio Sammie che si prenderà la scena durante la prima serata del locale. Tuttavia, dall’ombra escono forze oscure e ancestrali, decise letteralmente “a divorare qualsiasi cosa”. Ed il genere western lascia il posto a quello horror, ma vi diremo di più a seguire.
Un film diviso in due parti.
La prima metà del film, incentrata sul processo di creare qualcosa, segue i fratelli mentre incaricano qualche musicista locale di suonare nel loro locale e cercano di attirare clienti e promuovere attività secondarie.
All’inizio del film il regista Coogler introduce un concetto presente nel folklore di molte culture: l’esistenza di alcune rare persone in grado di fare musica con tale ardore da evocare gli spiriti (antenati benevoli e demoni in egual misura).
A quanto pare, Sammie, il figlio del predicatore che suona in modo appassionato la chitarra e canta con un baritono mesto e profondo, è proprio una figura di questo tipo.
La serata di apertura della bettola gli darà modo di mettere in pratica la sua abilità mistica suonando un’ipnotica musica blues. Considerati l’epoca e il luogo, è fin troppo probabile che a guastare questa fervida e allegra occasione arrivi presto qualche guaio.
L’antagonismo si presenta sotto forma di un uomo misterioso, l’unico “bianco” del film e non è un caso, tale Remmick (interpretato da Jack O’Connell), che oltre a possedere a sua volta una vivace musicalità ha un discreto appetito…di sangue umano!
La seconda parte del film fa virare la storia verso il genere horror dove il sangue scorre a fiumi e dove la lotta per la sopravvivenza sarà durissima. C’è da dire che una delle cose che non funziona del film è proprio l’inizio, dove Sammie torna coperto di sangue alla chiesa del padre e nella sua mente ci sono ancora dei flash dell’incubo appena vissuto. Perché avvisare già da subito lo spettatore che Sammie si salverà? Era necessario che il film stesso facesse uno spoiler per quello che avviene dopo? A seguire l’analisi completa di quanto il lungometraggio di Coogler nasconde.

Citazioni storiche e metafore celate…forse un po’ troppo!
Non possiamo nasconderci che “I Peccatori” è un film fatto da persone di colore per persone di colore americane. Il pubblico europeo potrà apprezzare (forse) la colonna sonora del film, curata dal premio Oscar Ludwig Göransson (Tenet, Creed, Oppenheimer) di cui è l’elemento portante con un mix di blues, folk e rock che accompagna la narrazione e sottolinea i momenti chiave della storia; i costumi, nonché le scene action sanguinolente.
Il vero problema del film è l’enorme presunzione del suo regista, il quale non solo cerca di mischiare generi profondamente diversi, ma non gli è venuto minimamente in mente che, a meno di non aver studiato la storia della segregazione del popolo di colore in America nonché l’evoluzione del genere blues, la maggior parte del pubblico non coglierà le metafore che si celano sotto la superficie della trama.
Ad esempio non viene mai citato Robert Johnson, musicista blues morto ad appena 27 anni che sembra ricalcare, per certi versi, la figura di Sammie, poiché entrambi suonano da Dio ma la musica nel loro caso sembra direttamente collegarsi ad un’entità maligna: se sul primo aleggia la leggenda che abbia fatto un patto col diavolo per suonare la chitarra in un modo sublime, il secondo, attraverso le corde dello strumento da lui pizzicate, attira il villain capo vampiro Remmick.
Altre tematiche ben poco sottotraccia sono il razzismo e la segregazione che negli anni ’30 in Mississipi erano così forte da aleggiare ancora oggi con lo “spettro” del ku klux klan. Remmick stesso, in un ragionamento piuttosto audace, cerca di convincere gli “umani” che per essere veramente liberi dall’oppressione dei bianchi conviene diventare come “lui”, maledetto si, ma sicuramente non discriminato come loro. Ci mancava che per essere “liberi” bisognasse diventare schiavi delle tenebre!

Nel film inoltre si accenna al fatto che, quand’era umano, Remmick fosse irlandese, e dunque conosca le umiliazioni (o peggio) che arrivano per mano di una classe dominante crudele. Il vampirismo, lascia intendere il vampiro, offre la libertà da tutto ciò, oltre che la capacità di reagire davvero e con violenza.
Coogler concede a Remmick e alla sua progenie di ghoul, sempre più numerosa, i loro momenti musicali di canti popolari degli Appalachi e vecchi pezzi scozzesi-irlandesi da cui si è evoluto quel genere americano. Oltre a essere belli e ossessionanti, i brani lasciano intendere un legame comune ma spezzato tra molti popoli (poveri immigrati bianchi, discendenti degli schiavi) che si sono ritrovati in America, per scelta o meno, e hanno visto pervertire, calunniare, lacerare e reprimere la propria cultura.
Forse “I Peccatori” vuole sottolineare che sono tutti vittima della feroce guerra di classe che si svolge nel mondo occidentale da quando quel mondo è nato. È un’idea provocatoria, che Coogler riesce a trasmettere anche quando Remmick fa cose cruente e orribili ed ancora quando molti dei suoi seguaci accettano la gerarchia razzista dell’America in cambio di una posizione leggermente meno infima.
Un’ulteriore particolarità: il vero finale dopo un primo epilogo (attenzione spoiler!).

Dicevamo che sappiamo già da subito che Sammie sfugge a qualcosa di drammatico. Capiremo dopo che si tratta di un assalto di vampiri con echi che vanno “Dal tramonto all’alba” del 1996 diretto da Robert Rodriguez (anche se con l’aiuto di Tarantino) a “Assalto al tredicesimo distretto” del 1976 scritto e diretto da John Carpenter.
Il film sembra chiudersi con una dissolvenza in cui Sammie abbandona il padre in cerca di fortuna perché, nonostante tutto, non vuole rinunciare alla musica (ed in parte all’essere per certi versi “segnato” anche attraverso la cicatrice sul volto fattagli da Remmick). Qui molti spettatori si alzerebbero nonostante il buio della sala e sarebbero giustamente puniti sia perché i titoli di coda dei film sono sacri in quanto sono l’omaggio a tutti coloro che ci hanno lavorato sia perché arriva il vero e proprio finale del film!
Sessant’anni dopo, Sammie è diventato ciò che ha sempre sognato: un bluesman leggendario. Il “vecchio Sammie” è interpretato dalla leggenda del blues Buddy Guy: vincitore di otto Grammy Awards e di un premio alla carriera, il quale ha rappresentato l’ideale da raggiungere per alcuni tra i più grandi musicisti della storia. Talenti come Eric Clapton, Jimi Hendrix, Keith Richards dei Rolling Stones e Jimmy Page dei Led Zeppelin lo hanno preso come modello di maestria.
Dopo un concerto, mentre beve al bancone, compaiono Stack e Mary, ancora giovani, ancora insieme. Stack gli offre l’immortalità, ma Sammie rifiuta con un sorriso. Gli basta aver vissuto pienamente. Accetta però di suonare un ultimo blues per loro affermando che, nonostante tutto, quella notte del ’32 è stata la più bella della sua vita. Il motivo? Prima che calasse il sole, erano liberi.
Giudizio finale: tanta carne al fuoco ma la resa non convince.

Il film è un guazzabuglio di idee grandiose ed una resa pessima. Ci sono ad esempio dei vezzi più bizzarri che accattivanti come l’ossessione maliziosa per l’atto del cunnilingus, e in particolare per un termine gergale (ripetuto spesso) per indicare la vagina. Il che dialoga in modo inquietante con la frequente allusione del film secondo cui le donne sono pericolose scocciature.
Rimane poi incredibile che un film con queste aspirazioni possa essere scritto e diretto con così poca abilità, pieno di convenzioni mal messe in scena e di frasi convenzionali senza alcun vero significato, con svolte di trama abituali e recitato senza alcuna enfasi.
Michael B. Jordan chiaramente non può fare il miracolo: è un attore discreto ma non gli si può chiedere ciò che non può fare. Con questo doppio ruolo riesce a interpretare due personaggi senza alcuna differenza (è impossibile per lo spettatore distinguere chi è uno e chi è l’altro, se non palesemente detto).
Non c’è in nessun momento né una personalità registica, cioè uno stile, né la capacità magistrale di alcuni registi classici di nascondere uno stile dietro una narrazione scorrevole e un mestiere impeccabile.
Quello di “I Peccatori” è il medesimo territorio che percorrono Tarantino e Jordan Peele, ovvero lavorare in modo politico sui generi classici e rimettere in scena parte dell’immaginario tradizionale del cinema con una prospettiva personale. Solo che qui non c’è alcuna prospettiva personale ma semplicemente un film che fa quello che fanno tutti gli altri: obbedire ad ogni regola come un horror dozzinale.
Nessuna personalità visiva nella parte relativa agli effetti digitali di creazione del mondo fantastico. Una fotografia di primo livello, un montaggio estremamente abile e una confezione in generale professionale, danno l’idea di essere davvero davanti a un film importante…. Peccato che non lo sia, ma avrebbe potuto esserlo, viste le idee. Ed il film finisce con lo scimmiottare gli horror B-movie che popolano il sottobosco di Netflix ed Amazon. Peccato per l’occasione persa!