Il testamento cinematografico del mitico Clint.
Dobbiamo dircelo subito. Questo potrebbe essere l’ultimo film dell’eterno Clint Eastwood, che alla veneranda età di 94 anni avrebbe tutto il diritto di salutare il grande pubblico e di godersi i restanti anni della sua lunga e gloriosa vita
Raro esempio di un regista/attore che ha dato il meglio di sé non all’inizio della sua carriera ma negli ultimi 30 anni a partire dal dirigere un capolavoro come Gli Spietati del 1992. Non possiamo abbandonarci alla malinconia né farci fuorviare nel giudizio su questa sua ultima opera. Bisogna essere obiettivi e giusti, e così vorrebbe anche il vecchio Clint. Si tratta di un buon film, ben diretto, essenziale e concreto, con pochi fronzoli, dove il messaggio morale che Eastwood vuole mandare è ben evidente nell’ultima scena (che però non vogliamo svelarvi).
Non è però ai livelli delle sue migliori realizzazioni, su tutte quei gioielli quali I ponti di Madison County (1995), Million Dollar Baby (2004) e soprattutto Gran Torino (2008), tra i miei film preferiti. Giurato Numero 2 è dunque, probabilmente, il suo ultimo film ed il suo testamento cinematografico.
Il sistema giuridico penale statunitense (ovvero il 50% della trama)
Chi ha studiato giurisprudenza o semplicemente chi ha una buona conoscenza dei film statunitensi, sa che negli U.S.A. se si commette un crimine non si sarà condannati da un giudice ma da una giuria di pari, ovvero da 12 giurati che altro non sono che uomini e donne assolutamente comuni, nella pia illusione che tale sistema consenta di arrivare ad una decisione giusta ed equa.
Di lungometraggi ambientati in un aula di tribunale e meglio ancora nella sala dove i giurati si riuniscono vi sono molti esempi, dal capostipite La parola ai giurati (1957) di Lumet al suo remake del 1997 di Friedkin, passando per Il giurato del 1996 diretto da Brian Gibson a La giuria (Runaway Jury) del 2003. La pellicola in esame sembra dunque un déjà-vu, soprattutto nel momento in cui conosciamo i membri della giuria stessa, alcuni dei quali stereotipati e monocordi, che ci ricordano molto i superficiali e menefreghisti componenti della giuria del già citato La parola ai giurati: in questo vecchio film però il giurato protagonista, Henry Fonda, è un uomo senza macchia e senza peccato che riesce a far ragionare gli altri ed a far assolvere l’imputato.
In Giurato Numero 2 Justin Kemp, interpretato da Nicholas Hoult (che da bambino sfigato in About a Boy passando per la serie TV scandalo Skin ne ha fatta di strada!), sembra un giovane uomo come tanti, ha una bella casa, una moglie incinta, un lavoro discreto, ma ha un passato che gli sta per presentare il conto. Ex alcolista, dopo essersi quasi ucciso al volante della sua auto 4 anni prima, perchè guidava praticamente in coma etilico, grazie alla sua compagna ha rigato dritto e tutto in lui oggi sembra perfetto. Nella prima scena lo dice anche la moglie: “Tu sei perfetto! “.
Purtroppo non è così! Il nostro anti-eroe, chiamato a far parte di una giuria sul pare ennesimo caso di femminicidio, scopre nelle prime udienze che il colpevole è proprio lui! Si ricorda infatti la sera del presunto omicidio di aver urtato sulla strada dove è avvenuto il crimine un qualcosa, che lui ha pensato fosse un cervo (aveva pure un bel cartello sulla strada a ricordargli di stare attento all’attraversamento di tali animali). Poiché era buio e pioveva, non vedendo cosa avesse urtato, se ne torna tranquillamente a casa. In aula scopre con disgusto che ha urtato una ragazza la quale precipitando nel dirupo sottostante ha trovato la morte. Che fare allora? Mandare in galera un innocente e salvarsi la propria vita o confessare ed avere la coscienza apposto (e l’esistenza distrutta)?
Le tematiche del film: colpa, rimorso, redenzione
Come detto Justin Kemp si trova di fronte ad un bivio che non sa risolvere. Inizialmente cerca di far assolvere il presunto colpevole istillando il dubbio nel resto della giuria. Tuttavia verso la fine del film, complice uno dei giurati che vuole a tutti i costi punire l’imputato per propri personali rancori, egli cederà al volere maggioritario ed un innocente sarà condannato… forse un barlume di speranza e di giustizia arriverà dalla pentita e coscienziosa pubblica accusa, interpretata da Toni Collette.
C’è dunque il tema della colpa, del rimorso, del senso di giustizia, che ci pervade (chi più e chi meno) ma che spesso per egoismo tendiamo a nascondere e a non seguire. Esiste una verità ed una giustizia! dice il protagonista in una delle ultime scene del film e chi conosce i processi sa bene che quanto scritto in una sentenza non sempre corrisponde alla piena verità (ammesso che ne esista una sola). Justin Kemp inizialmente determinato a salvare un innocente, alla fine cede perché non vuole rinunciare alla sua bella vita, perché la ragazza camminando sul ciglio della strada di notte e sotto una pioggia battente se la sarebbe andata a cercare, nonché anche alla luce del suo ex ragazzo, oggi imputato, che non è uno stinco di santo e solo per il fatto di averla fatta incamminare da sola per quella strada si merita la galera a vita.
Ma questa non è giustizia, è un auto-assolversi per non pensare al male che si è fatto (seppur inavvertitamente). Non sarà dunque il protagonista a redimersi, e questa è certamente una novità rispetto ad altre opere di Eastwood quali ad esempio Fino a prova contraria o Gran Torino, ma la giustizia per forza di cose dovrà trionfare.
Il visibile e l’invisibile delle nostre vite giudicato da gente inetta
Nel film si susseguono le cose visibili e quelle che non lo sono, ciò che è evidente e quello che viene celato, la sposa bendata, il protagonista nel temporale, il testimone confuso dalla distanza, il pubblico ministero ‘accecato’ dalla carriera.
Eastwood passa il tempo a evidenziare i punti ciechi, quello che i personaggi non vedono o non vogliono vedere. Ma è tutto lì, in piena luce. La fotografia è limpida, l’illuminazione uniforme, l’inquadratura spinta al massimo punto di eccellenza, eppure tutti guardano senza vedere. Anche la statua della giustizia, più volte inquadrata, ha gli occhi velati. Eastwood ci mostra quanto possa essere fallace il sistema giudiziale penale statunitense.
In primis abbiamo un avvocato difensore inetto che non va oltre il provare ad istillare un dubbio nella giuria (quando in realtà se avesse indagato un po’ sarebbe arrivato alla conclusione che si è trattato di un pirata della strada), segue una pubblica accusa che vuole a tutti i costi condannare l’imputato in modo da poter essere eletta dal popolo (si negli U.S.A. i P.M. sono eletti… orrore!), ed infine una giuria dove tra chi vuole condannare per tornarsene a casa il prima possibile e chi vuole una condanna perché ha suoi risentimenti personali si crea un mix che non può che far compire una ingiustizia.
E badate che è quello che avviene costantemente negli U.S.A., basti pensare al caso O.J. Simpson dove quest’ultimo palesemente colpevole fu assolto da una giuria composta da parecchie persone di colore desiderose di non condannare un loro pari (almeno con riferimento al colore della pelle), Aberrante è pensare di far decidere della vita (e dell’onore) di una persona ad un branco di cittadini presi letteralmente dalla strada, facilmente abbindolabili, e che fanno proprie convinzioni che tutto sono fuorché scientifiche: emblematico l’esempio che Clint Eastwood mostra in una delle scene, dove una ragazza della giuria al solo terzo anno di medicina pensa di saperla lunga sulle fratture e su cosa e come sono state provocate (!!!).
Avrei preferito un altro finale (nessuno spoiler, tranquilli!)
Lo dico chiaramente, ciò che mi è piaciuto di meno del film è proprio il finale che non svelo e che non può classificarsi né come lieto fine né come amaro. Ho scritto poco fa che ho apprezzato la critica nemmeno troppo velata che Eastwood fa al sistema della giuria, ma il regista, conservatore e patriota convinto, voleva per forza chiudere il film con la giustizia che, seppur non in maniera ortodossa, comunque dovrebbe trionfare.
Ecco, sarebbe stato meglio invece lasciare un finale più cupo, con un innocente in galera per sempre e magari il vero reo roso dai sensi di colpa… una pena comunque severa e che avrebbe comunque lasciata intatta la denuncia su un sistema giudiziario che andava bene nel’700 ma che mostra oggi tutti i suoi limiti: pensate solo a quanto le fake news ed i media possono condizionare i vostri giudizi.
In questo film abbiamo una coppia dove lei muore e lui è un violento e forse pure spacciatore di sostanze… chi non lo condannerebbe su due piedi per il suo stile di vita e per aver lasciato che la sua bella si incamminasse da sola, sotto la pioggia, al buoi nella notta, per una strada extraurbana sui tacchi? Troppo spesso si cerca subito un colpevole, in modo da condannarlo e da sentirci così tutti più sereni. Nella vita sappiamo che ciò accade molto spesso, mentre nei film si può decidere utopisticamente che la giustizia trionfi (a danno però del realismo complessivo della trama).