C’era una volta un uomo medio, molto medio. Anzi, mediocre. E proprio per questo, indimenticabile.
Il 1975 non è stato solo l’anno in cui uscì Lo Squalo di Spielberg o in cui nacque Microsoft. È stato anche l’anno in cui un ragioniere dall’impermeabile beige e dalla voce strozzata fece il suo ingresso al cinema, diventando, senza volerlo, il simbolo di un’intera generazione. Fantozzi non è un semplice personaggio comico: è un’icona. Un uomo goffo e servile, schiacciato dalla burocrazia, dalla gerarchia aziendale e da una società che lo umilia senza tregua. Un eroe tragicomico, che più tenta di ribellarsi, più viene risucchiato nelle sabbie mobili della sua misera esistenza.
Fantozzi siamo noi (e forse non ci piace ammetterlo)
La grandezza di Paolo Villaggio sta nell’aver creato un personaggio in cui tutti possiamo riconoscerci, anche se ci fa male farlo.
Fantozzi è il lavoratore sfruttato, il padre di famiglia rassegnato, l’uomo che sogna di essere un vincente ma è intrappolato nella mediocrità. È il riflesso deformato e grottesco della classe media italiana degli anni ‘70 e ‘80: una generazione di impiegati ligia al dovere, terrorizzata dal perdere il posto fisso, pronta a tutto pur di non scontentare il capo.
La Megaditta, con la sua gerarchia feudale e i suoi direttori con titoli da opera buffa (Mega Direttore Naturale, Gran. Farabut., Figl. di Putt.), è la metafora perfetta di un sistema aziendale spietato, che finge di premiare i meritevoli mentre li tiene in pugno con illusioni di mobilità sociale. Sport aziendali umilianti, cene con la dirigenza dove i sottoposti devono ridere a comando, cineforum che trasformano i grandi classici in momenti di tortura collettiva: la vita del ragioniere Fantozzi è una commedia dell’assurdo, ma anche una critica feroce e lucidissima.
La mediocrità come forma d’arte
Villaggio è stato un genio. Ha preso il fallimento e lo ha reso esilarante, creando tormentoni che ancora oggi fanno parte del nostro linguaggio: dalla Corazzata Kotiomkin (“una cagata pazzesca!”) alla nuvola da impiegato che lo segue ovunque.
Ma dietro le risate si nasconde sempre una triste verità: Fantozzi non è solo sfortunato, è condannato. La sua ribellione è sempre tardiva, goffa, destinata a fallire. Quando finalmente prende coscienza del sistema in cui è intrappolato, arriva subito il contraccolpo: la paura del cambiamento, il terrore di perdere quel poco che ha, lo fanno tornare al suo posto. È il servo perfetto, quello che alla fine si inginocchia da solo.
50 anni dopo: siamo ancora tutti un po’ Fantozzi?
Oggi, a 50 anni dalla sua uscita al cinema, Fantozzi è più attuale che mai. Il mondo del lavoro è cambiato, certo, ma l’ansia da prestazione, la precarietà, il servilismo verso i capi e la paura di perdere tutto sono sempre lì. Solo che oggi si chiamano burnout, quiet quitting e work-life balance.
Forse è per questo che il ragioniere più famoso d’Italia continua a farci ridere e a metterci a disagio allo stesso tempo. Perché in fondo, in ogni ufficio, in ogni call aziendale, in ogni “team building” forzato c’è sempre una piccola Megaditta pronta a inghiottirci.
E un piccolo Fantozzi dentro di noi, che tenta disperatamente di sopravvivere.