Dreams (Sex Love): le prime impressioni sul film che ha vinto il Festival del cinema di Berlino.

Quando ci si approccia ad un film intellettuale che basa tutto suoi dialoghi e che ha vinto il Festival di Berlino non possiamo guardarlo ed interpretarlo superficialmente. Necessariamente dobbiamo fare uno sforzo in più perché altrimenti liquideremo questo lungometraggio come una storia anche piuttosto sempliciotta e dall’andamento lento (per non dire noioso). Con obiettività allora diremo i pregi e quello che non convince di questo film di Dag Johan Haugerud, che ha completato una trilogia sui rapporti umani iniziata e già conclusa nel 2024 con altri due film, Sex (“sesso”) e Kjærlighet (“amore”), girati praticamente in sequenza.

La trama: una (banale?) infatuazione adolescenziale come percorso di crescita.

Una studentessa diciasettenne, Johanne (Ella Øverbye),quasi per caso si prende una cotta per una sua insegnante, e come canta Nada, pur non ballando “tra le stelle accese […] scoprirà l’amore disperato”. Come è spesso capitato nella nostra adolescenza ci siamo imbattuti in un amore folle, totalizzante e…non corrisposto, e dunque abbiamo sofferto e fatto sogni, (come il titolo del film appunto…Dreams), ad occhi aperti facendoci dei trip mentali potentissimi e allo stesso tempo illusori. La prima parte del film è quasi un documentario con Johanne che da voce narrante ci prende per mano e ci fa scoprire come è nato il suo amore, ce lo descrive, e ci rappresenta che essendo così potente, deve necessariamente riportarlo in un manoscritto di 95 pagine, molte delle quali però sono frutto della sua fantasia piuttosto che quanto avvenuto nella realtà. Nella seconda parte del film Johanne decide di far leggere le sue riflessioni prima alla nonna Karin (Anne Marit Jacobsen) e poi alla madre Kristin (Ane Dahl Torp). La prima, celebre poetessa, ne apprezza la dimensione letteraria molto più di quella personale, forse scandalosa, del rapporto tra una studentessa e la sua insegnante mentre la madre, prima profondamente turbata, condivide con la nonna che la ragazza ha talento e tutte e 3 le donne decidono di sottoporre il manoscritto ad un editore per la possibile pubblicazione.

Le 3 donne discutono su quanto accaduto e sulle doti letterarie della ragazza.

Una possibile analisi del film.

Il film si basa totalmente sulla sceneggiatura e su alcune scene metaforiche. Quanto alla prima, è evidente come il linguaggio sia il perno su cui ruotano le vicende di Johanne, di sua madre e di sua nonna. Linguaggio eclettico, per dirla con Calvino, che ha un differente spessore, a volte come un pulviscolo, altre volte concreto sulle cose ed i corpi, come la figura di nonna Karin, una poetessa da barricate in piazza. Linguaggio che proietta su ognuno un’identità culturale e generazionale ben precisa, e risente delle mode dei tempi, per il presente, complesso e stratificato, rappresentato da mamma Kristin nell’attuale confusione culturale abituata a distruggere e fraintendere senza centrare il punto del discorso, a contrapporre ideali peggiori di quelli da combattere, ad avanzare sospetti e puntare il dito per poi emettere ridicole sentenza di condanna.

La ragazza decide, come detto, di scrivere la sua “storia d’amore” per tentare di conservare quanto accaduto, un desiderio romantico ed irrazionale di prolungare la propria esistenza avendone però poi la difficoltà di condividere il risultato con la sua famiglia.

So che non la dimenticherò mai, ma, sapete, le memorie cambiano. Ho pensato che se avessi trovato le esatte parole per descrivere come era esattamente, avrei potuto catturarne l’essenza, renderla solida, qualcosa che posso portare nel palmo della mano, per sempre!”

Questo ci racconta Johanne, e se le parole fanno da padrone il film, anche l’aspetto estetico gioca un ruolo decisivo. Il film è anche un riflesso della società norvegese, di come un popolo così quieto e apparentemente emancipato affronta le conseguenze, gli effetti, i contraccolpi dei sentimenti e di ciò che gira attorno. Il popolo norvegese è ben rappresentato da Oslo, città dove è ambientato il film, piena di contrasti. Si passa da quartieri multi-etnici a quelli extralusso dove i rispettivi abitanti difficilmente si incontreranno. Eppoi l’immagine delle scale tortuose, con cui si apre la prima scena, sconnesse e dilaganti. Il primo amore resta una vetta da scalare, un’utopia, una camera sconosciuta piena di oggetti.

La protagonista sale le scale che dividono due quartieri per andare nell’appartamento del “suo amore”

Le scale stesse infatti sono una metafora del desiderio sessuale nella teoria dei sogni. Tale simbolismo ricorrente si sublima poi nel sogno di Karin, ispirato all’episodio biblico della scala di Giacobbe: una commistione di sacro e profano che arricchisce ulteriormente il suo personaggio.

All’estetica delle immagini si accompagna la fotografia di Cecilie Semec, che esplicita la differenza tra realtà e fantasia grazie alla temperatura di colore. Si noti come l’appartamento dell’insegnante passi infatti dal caldo avvolgente del sogno alla spigolosa freddezza del mondo reale, non appena il racconto abbandona la sua fase più idilliaca. Anche la stessa Johanna d’improvviso ci appare più ruvida, persino nei tratti somatici, a sancire la fine dell’illusione.

Un’onirica storia d’amore che sfocia nel conflitto intergenerazionale.

Come detto nella seconda parte del film, la lettura del manoscritto da parte della nonna e della madre di Johanne scatenano un dialogo intergenerazionale che è il vero cuore del film. La madre ne esce un po’ sacrificata (di lei sappiamo solo che frequenta uomini sulle app di dating, restandone delusa), mentre la nonna assume un ruolo più centrale. La madre e la nonna di Johanne si interrogano sui confini di quello che hanno letto, sulla distanza che forse intercorre tra realtà e rappresentazione, sulla legittimità dei sentimenti della protagonista, sui possibili abusi commessi dalla professoressa, sulle responsabilità della scuola, ma poi scelgono di prestare ascolto all’autenticità dei sentimenti e ad un racconto in cui Johanne non è mai vittima delle circostanze. La nonna è dunque la vera coprotagonista e dà voce a una frustrazione che il cinema spesso ignora: quella di una donna matura cui manca il contatto fisico, e vorrebbe solo “un ultimo abbraccio prima di andare a letto”. Se Johanne brama le relazioni che non ha ancora sperimentato, Karin rimpiange quelle passate o mai iniziate, rammaricandosi di non aver fatto l’amore con un maggior numero di partner. Ella ci regala i pochi sorrisi che il film genera. Ciò grazie ai magnifici e divertenti dialoghi tra la madre e la nonna della protagonista: in un serrato scambio generazionale che tira dentro la grande letteratura (le passeggiate delle sorelle Brontë) ma anche il film Flashdance, colpevole secondo l’anziana di non aver fatto altro che sminuire il ruolo della donna.

La madre della ragazza invece è un personaggio poco esplorato e piuttosto ambiguo, poiché oltre a cambiare in maniera rapida il giudizio su quanto avvenuto sembra essere la più superficiale delle 3 donne, nonché quella più materialista: sarà lei a pensare a pubblicare il manoscritto di Johanne principalmente per fare un po’ di soldi.

Nonna e nipote discutono della bravura letteraria della seconda.

Ci convince il film? Fino ad un certo punto…

Lo abbiamo scritto subito. Un film che vince un festival prestigioso come quello di Berlino merita un’analisi approfondita. Ci abbiamo provato a farla ma restano delle perplessità. La prima è anche la più delicata da affrontare…ovvero il film merita il premio ed il tributo della critica? Ci rimane un dubbio ovvero che alcune scelte del regista siano state indirizzate a cercare consensi soprattutto negli ambienti più radical e progressisti. Si è detto che questo film ricorda “Chiamami con il tuo nome” di Guadagnino, ed anche lì in effetti è presente una storia d’amore omossessuale anche se molto più esplicita rispetto ai sogni che si fa Johanne. Ci si chiede dunque se il film avrebbe riscosso lo stesso successo se la protagonista non si fosse innamorata di una donna, la quale per giunta, pur essendo nata in Norvegia, ha origini eritree e dunque è di colore. E’ forse un tentativo di cavalcare la cultura queer e di abbattere ogni possibile steccato? Siamo così sicuri che sarebbe stato lo stesso se il regista avesse narrato la storia di un ragazzo che si innamora della sua insegnante (la cinematografia ne è piena di storie così)?

L’insegnante e l’alunna in una scena piuttosto ambigua (in apparenza).

Il mondo maschile è poi totalmente assente nel film o ridotto a mera comparsa. Si dirà che la moda di questi tempi è questa, che le storie per aver successo nel cinema ormai debbano riguardare minoranze etniche e sociali e meglio se gli interpreti siano “fluidi”. Da qui la riscrittura di capolavori del passato e la scelta degli attori più basata su algoritmi che su altro (Netflix docet).

Il film, quasi nel finale, contiene una scena ai limiti della irrealtà. Infatti l’insegnante di Johanne, accetta di vedere solo la madre della sua studentessa, in un caffè. Qui prima si accerta che la donna non voglia denunciarla alle autorità, poi nega decisamente di aver mai condiviso i sentimenti della ragazza verso di lei, né di aver compreso quelli della sua alunna, arrivando sino al punto di ribaltare la prospettiva iniziale e dichiarando di essere stata usata dalla protagonista (?!), mettendosi paradossalmente in quel ruolo di vittima (ma non è lei l’adulta?!), che fino a quel punto il film aveva accuratamente evitato di attribuire.

Si fa fatica a capire come la madre di Johanne possa accettare tutto ciò, (se non malignamente pensare che ha voluto incontrare l’insegnante per avere la liberatoria alla pubblicazione del libro e farci “la crana” come direbbe Crozza quando imita Razzi). E’ decisamente assurdo poi come un adulto non capisca che le attenzioni ricevute siano di tipo sessuale e che si consideri una vittima! Ma non sarà forse che anche l’insegnante avrebbe voluto qualcosa da quel punto di vista ma giustamente si è fermata vista la giovane età di Johanne?

La protagonista contempla il “suo amore”

Cosa ci è piaciuto

Concludiamo però con due note positive. La prima è la protagonista del film, che appena ventenne ci regala un’interpretazione matura che a chi scrive ha ricordato, nella fissità dello sguardo Isabelle Huppert. Tristan Bernard diceva che “il primo bacio non è dato con la bocca, ma con gli occhi”. Se lo sguardo si fa sempre portatore di desiderio, è nel primo amore che esso acquisisce un’importanza capitale: presi dalla tempesta di un sentimento nuovo, guardare equivale ad amare, mentre un’occhiata ha l’intensità di un bacio. Chi si innamora per la prima volta è spesso incapace di fare altro – non ne ha ancora i mezzi – e quindi sfoga la passione sul piano del sogno. Sotto le pieghe delle percezioni della protagonista si annidano anche una cupezza tagliente e una fragilità irredimibile che molto ha a che fare con i traumi e le mancanze della generazione Z e della sua faticosa ricerca di un equilibrio nello stare al mondo.

Inoltre un plauso a Dreams è certamente il fatto che non sgorga mai appieno nell’erotismo saffico e rimane avvolto in un’aura di dolce e delicata meta-riflessione sull’amore che investe anche la sua rielaborazione attraverso i ricordi, le memorie, la parola scritta, in una buona sostanza la “letteratura”, chiamata a trasfigurare, ma anche inevitabilmente ad adulterare, nel momento in cui la esercitiamo sulle cose, la sostanza delle nostre esperienze e del modo in cui le digeriamo e assorbiamo. Quante volte vengono messe delle scene gay o lesbo in un film (spesso estemporanee perfino alla trama!) solo per attirare gli spettatori voyeurs mettendo sapientemente alcuni fotogrammi di tali rapporti nei trailer?

Dreams non è mai melodrammatico o eccessivo, ma chi l’ha creato ricorda molto bene una caratteristica propria di quell’età: quanto ogni esperienza sia totalizzante. Johanne è dapprima travolta da un bisogno assoluto di segretezza, poi da una sottile malinconia colta anche da chi le sta attorno, poi se ne rimane a letto per giorni, quasi immobilizzata e febbricitante rispetto a un sentimento che fatica a metabolizzare.

Il film descrive uno sfogo, un canale per scaricare l’enorme quantità di energia che l’innamoramento provoca. La voce di Johanne ci accompagna con pagine scritte di grande suggestione, grande precisione, brutale onestà con cui disseziona i continui sbalzi del suo sentimento. Passaggi in cui è impossibile non ritrovarsi: quando per esempio desidera disperatamente vedere l’oggetto del suo desiderio ma al contempo la sua visione le scatena la paura che la sua cotta sia evidente e quindi si ritrova a desiderare ardentemente di vedere e non vedere allo stesso momento la sua insegnante. Buona visione allora!

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